Corte di cassazione
Rogito del Segretario comunale e delitto di falso
Se la donazione è palesemente fasulla va esclusa la ricorribilità della teoria del falso innocuo.
Il Segretario di un Comune del territorio comasco veniva riconosciuto responsabile del delitto di falso in atto pubblico fidefacente, di cui agli artt. 479 e 476, comma 2, cod. pen., per avere, nella veste appunto di alto funzionario pubblico, stipulato un contratto di donazione di beni immobili, attestando falsamente la contestuale presenza dei testimoni e delle parti al momento della sottoscrizione dell'atto.
La Corte di Appello di Milano, nel luglio 2016, confermava infatti la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Como, che, nel 2011, aveva riconosciuto colpevole il Segretario: il quale ha proposto ricorso per cassazione, allegando un unico – curioso – motivo di diritto: quello per il quale la radicale inesistenza dell'atto di donazione derivante dal contrasto con norme imperative (pacificamente violate nel caso in esame, posto che era rimasto accertato che le parti non erano presenti alla stipula dell'atto e che, diversamente da quanto attestato dal pubblico ufficiale, non ne avevano ricevuto lettura e non l'avevano sottoscritto al momento del rogito), avrebbe reso lo strumento di liberalità privo di giuridica rilevanza, con la conseguente necessità di qualificare le attestazioni non rispondenti al vero del pubblico ufficiale come mere falsità innocue.
La Corte di Cassazione ha smentito la tesi del ricorrente e con sentenza della V Sezione del 20 febbraio 2018, ha confermato la condanna.
I giudici di legittimità hanno dapprima sottolineato che la fonte della competenza per i Segretari comunali a stipulare atti negoziali è da individuare nell'art 97, lett. c), del D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267 (T.U.E.L.), il quale ha statuito che questi possono “rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali nell'interesse dell'Ente”. Sicché, alla stregua della disciplina richiamata, il segretario comunale è l'ufficiale rogante del Comune, e cioè il funzionario dell'Ente locale competente alla stipulazione dei contratti in alternativa al notaio. Il contratto stipulato con l'osservanza della “forma pubblica amministrativa” - che è quella in cui l'ufficiale rogante è proprio il Segretario comunale - è atto pubblico (art. 2699 Cod. civ.; art. 16 comma 3 R.D. 18 novembre 1923 n. 2440) dotato dell'efficacia propria di questo (art. 2700 Cod. civ.), trattandosi di documento ricevuto da pubblico ufficiale, diverso da notaio, autorizzato per legge ad attribuirgli pubblica fede.
Poiché non è dettata un'espressa disciplina sulle formalità dei contratti stipulati in forma pubblica amministrativa, limitandosi l'art. 96 del citato R.D. 23 maggio 1924 n. 827, a stabilire che detti contratti "sono ricevuti con l'osservanza delle norme prescritte dalla legge notarile per gli atti notarili, in quanto applicabili", deve inferirsi che trovi conferma la tradizionale impostazione che considera l'atto notarile quale schema paradigmatico di atto pubblico.
Da tali premesse la Corte ha fatto derivare il convincimento in forza del quale la tesi difensiva - che vuole che l’atto adottato non fosse suscettivo di falso, perché privo della possibilità di generare nocumento del bene giuridico tutelato dalla legge penale, cioè la fede pubblica, (secondo il noto bocardo non datur falsum in scriptura quae non est apta nocere) – non poteva dirsi fondata: da qui l’ineluttabile conseguenza che le attestazioni contrarie al vero contenute nell'atto pubblico di cui al caso esaminato – ricadenti sulle circostanze che tutte le parti del contratto fossero presenti; che dell'atto fosse stato data lettura e che lo stesso fosse stato sottoscritto dai donanti e dalla parte donataria al cospetto del pubblico ufficiale rogante – tradiscono la funzione autenticativa e certificativa che è propria del pubblico ufficiale equiparato al notaio e sono, in sé, capaci di ledere il bene giuridico della fede pubblica e dell'affidamento dei terzi, poiché comprovano, con il crisma probatorio della verità, l'esistenza di un fatto in realtà inesistente. E ciò è sufficiente ai fini della configurazione del contestato reato di falso ideologico.
Né a dire, ha sottolineato la Corte, che potessero ricavarsi argomenti a favore della teoria del cosiddetto “falso innocuo”, tenuto conto che, alla stregua di tale elaborazione, il falso può dirsi inutile o superfluo, quando la condotta, pur afferendo al significato letterale di un atto, non incide sul suo significato comunicativo, nel senso che l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel falso di falso materiale) sono del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto, non esplicando effetti sulla funzione documentale, dell'atto stesso, di attestazione dei dati in esso indicati.
Dal che è agevole desumere che l'innocuità non deve essere valutata con riferimento all'uso che dell'atto falso venga fatto, ma deve emergere direttamente dall'atto stesso. Poiché, nel caso scrutinato, la non conformità al vero delle circostanze attestate dal pubblico ufficiale rogante non era evincibile dall'atto-documento stesso, ma costituiva il risultato di un'attività accertativa aliunde eseguita, l'invocata innocuità del falso non è stata ritenuta ricorrente.
Fonte: Massimario G.A.R.I.
Rodolfo Murra
(18 marzo 2018)
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